Il problema della realtà degli enti matematici nel libro VI della Repubblica di Platone
Di quale realtà ci parla la matematica? [1]
Una domanda apparentemente semplice, ma sotto la quale giace una complessità di non poco conto. Con tale questione esordisce Paolo Zellini nel suo libro La matematica degli dei e gli algoritmi degli uomini, sottolineando come sia un fatto che la matematica sia dotata di un potere intrinseco descrittivo capace di definire modelli di fenomeni che accadono realmente nel mondo.

Il problema che a questo punto si pone consiste nello stabilire quali siano le ragioni di questa potenza descrittiva, e la difficoltà che si presenta nel formulare una risposta contribuisce non poco a diffondere l’idea di una matematica come scienza che elabora operazioni attraverso concetti e regole, inventate sembra al solo scopo di eseguirle correttamente.
Insomma si tratterebbe dell’idea di una matematica come puro gioco linguistico o come vuoto formalismo [2], sostenuta tra l’altro da alcuni matematici e filosofi di estrazione formalista. Ecco però che Zellini, nel corso della sua argomentazione, ricorda un dato molto importante:
Tuttavia la matematica, se risaliamo alla sua storia più remota e alle sue più profonde motivazioni, appare orientata diversamente da ciò che comunemente si crede. Le fonti fanno capire che l’aritmetica e la geometria antiche cominciavano ad assumersi il compito non tanto di descrivere o simulare le cose reali, quanto di offrire un fondamento della stessa realtà del mondo di cui esse facevano parte [3] [corsivo mio].
Proprio questo ci permette di chiarire e di rendere più preciso il senso della domanda posta all’inizio: se la matematica non si presenta come una mera scienza descrittiva, ma una scienza fondante, il problema che si pone non si presenta solo da un mero punto di vista epistemologico, ma anche da un punto di vista ontologico, il quale inerisce alla questione di quale sia la natura degli enti matematici che fondano e consentono una descrizione strutturale della realtà.
Per gli antichi erano gli enti concreti, costituenti il mondo percepibile mediante la sensazione, ad essere gli enti irreali, in quanto mutevoli e cangianti, mentre soltanto nei numeri, nei rapporti e nelle figure era possibile trovare ciò che si sottrae all’evanescenza e all’instabilità. Un immagine questa alla base della filosofia platonica, in modo particolare, sulla quale concentreremo la nostra attenzione.
Alla domanda quindi posta all’inizio, rispondiamo che la realtà di cui ci parla la matematica è la realtà che sta dietro al mondo della percezione e presumibilmente quella realtà che consente una regolarità dell’esperienza, che altrimenti sarebbe caotica e incomprensibile.
LA METAFORA DELLA LINEA NEL VI LIBRO DELLA REPUBBLICA
Proprio in chiusura del VI libro della Repubblica, Socrate utilizza una metafora per indicare quali siano i diversi gradi onto-epistemologici che costituiscono il reale:
Rappresentale allora come una linea divisa in due segmenti diseguali; dividi di nuovo secondo la stessa proporzione ognuno dei due segmenti, cioè quello del genere visibile e quello del genere pensabile [4]…
La parte della linea che corrisponde al “genere pensabile” viene ulteriormente diviso in due, seguendo sempre la medesima proporzione. Proprio a questo punto si trova un passaggio molto importante:
Nella prima sezione, l’anima servendosi quali immagini delle cose che nell’altro segmento erano oggetto di imitazione, è costretta a condurre la sua ricerca a partire da ipotesi, e procede non verso un principio, ma verso una conclusione[5] …
Alle perplessità di Glaucone, il nostro precisa quanto appena riportato riferendosi in particolare a coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e scienze simili[6], i quali assumono per ipotesi le definizioni del pari e dispari, delle figure ecc… e, ricorrendo a forme visibili, conducono le dimostrazioni fino alla conclusione, sebbene gli oggetti di tali dimostrazioni siano gli oggetti in sé e non i modelli sensibili di cui si servono.
La terminologia adoperata da Socrate atta a definire questa parte, è indicativa di quale fosse per Platone lo statuto onto-epistemologico degli oggetti matematici:
… Di tutte queste figure che modellano o disegnano, le quali producono ombre o immagini riflesse nell’acqua, si valgono a loro volta come di immagini, cercando di vedere quelle forme in sé che non è dato vedere se non con il pensiero (dianoia) [7].
Il termine dianoia qui e in seguito [8] viene impiegato proprio per indicare quella forma di pensiero discorsiva adoperata dai matematici che si colloca fra la doxa e il nous, la quale si contrappone al pensiero puro, in grado di cogliere il non-ipotetico.
In breve [9] possiamo già qui intravedere come per Platone gli oggetti della matematica siano propri di quella dimensione che si colloca fra il sensibile e l’intelligibile. Come sostenuto da Konrad Gaiser [10], in questa parte della Repubblica, verrebbe esplicitata la funzione mediatrice dei matematika: collocandosi fra il piano sensibile e quello intelligibile, gli enti matematici costituirebbero un medio, oggetto una serie di discipline che consentirebbero di cogliere quelle fondamentali analogie strutturali fra i diversi piani ontologici, approssimandoci così verso una comprensione del reale.
Stando alla posizione di Gaiser, le matematiche costituirebbero quindi un corpus di saperi in grado di mettere in evidenza come nei diversi ambiti fenomenici e sovrasensibili operino leggi strutturali identiche e concordi.
Sebbene a questo punto sia chiaro che gli enti matematici sia entità intermedie, ancora una domanda rimane a cui rispondere: gli oggetti delle scienze matematiche sono dunque Idee?
All’interno del libro V della Repubblica Socrate sostiene che:
… È chiaro che noi conveniamo che l’opinione è cosa diversa dalla scienza … Ognuna di esse, avendo un’efficacia diversa, è dunque per sua natura correlata a oggetti diversi? …
E la scienza è in qualche modo correlata a ciò che è, per conoscere il modo di essere? …
L’opinione invece, diciamo, opina? [11]…
Se dunque a ciascuna facoltà conoscitiva spetta come oggetto una certa realtà ontologica corrispondente al grado di conoscenza e se la facoltà corrispondente alla realtà intermedia degli oggetti matematici è la dianoia, si deve concludere che essi siano Idee di qualche tipo o che vi sia una realtà intelligibile di “secondo grado” rispetto alle Idee, abitata da enti che sono oggetto delle scienze matematiche? [12].
Come si può riscontrare all’interno del libro VII [13], al passo in cui Socrate riepiloga quanto acquisito, viene lasciato cadere il discorso e Platone, in tutti i suoi scritti, tralascerà di dire esplicitamente se esista o meno una realtà intelligibile intermedia che sia oggetto della dianoia. Ecco dunque che se da una parte si può rispondere alla domanda posta all’inizio, dall’altra la risposta non può che essere solo parziale, come tutte le grandi questioni che da secoli tormentano l’essere umano.
Note:
[1]P. Zellini, La matematica degli dei e gli algoritmi degli uomini, Adelphi, Milano, 2016, p. 11.
[2]Ivi, p. 11.
[3]Ivi, p. 12.
[4]Resp, 509 d 6 - 8.
Da qui in poi mi avvalgo della traduzione di M. Vegetti, BUR, Milano, 2015.
[5]Resp, 510 b 4 - 6.
[6]Resp, 510 c.
[7]Resp, 510 e 2 - 511 a 2
[8]Resp, d 4 - 5.
[9] Scendere in ulteriori dettagli andrebbe contro il carattere introduttivo del presente articolo.
[10]Cfr. K. Gaiser, Platons ungeschriebene Lehre, Klett, Stuttgart 1963; trad. ita di Vincenzo Cicero, La dottrina non scritta di Platone, presentazione di Giovanni Reale, Vita e pensiero, Milano 1994, p. 99.
[11]Resp, 478 a 5 - 10.
[12]Cfr. Elisabetta Cattanei, Enti matematici e metafisica. Platone, l’Accademia e Aristotele a confronto, prefazione di Imre Toth e Thomas A. Szlezák, Vita e pensiero, Milano, 1996, p. 128.
[13]Resp, 533 e 7 - 534 a 8.